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Addio Robbie Robertson (The Band), songwriter mitico quanto i personaggi delle sue canzoni

Maestro di songwriting, l’artista raccontava intense storie umane e sarà ricordato come uno dei più brillanti storyteller della storia della pop music

Autore Billboard US
  • Il10 Agosto 2023
Addio Robbie Robertson (The Band), songwriter mitico quanto i personaggi delle sue canzoni

Robbie Robertson (foto di Don Dixon)

Robbie Robertson è morto mercoledì 9 agosto all’età di 80 anni. È stato un guerriero di strada, songwriter e guitar hero che ha contribuito a plasmare l’epoca d’oro del rock della fine degli anni ’60 con The Band. Ha creato o curato la musica di molti film di Martin Scorsese e ha realizzato diversi importanti album da solista.

Robbie Robertson, creatore di miti

Nel corso degli anni si è distinto come uno degli storyteller più influenti del rock (“creatore di miti” potrebbe essere una definizione migliore, anche se ha raccontato sempre storie vere di grande intensità). L’ha fatto prima nel film-concerto di Scorsese The Last Waltz, poi nel libro Testimony: A Memoir e nel documentario su The Band, Once Were Brothers, e in generale in tutta la sua carriera come uno dei narratori più avvincenti nella storia della musica popolare.

Robbie Robertson ha trascorso la prima parte della sua carriera suonando per Ronnie Hawkins e Bob Dylan. Poi, con The Band, scrivendo e suonando canzoni radicate nel mito americano. Le storie erano sue, ma i personaggi sembravano così legati al paesaggio che sembrava che stessero aspettando che lui ne cantasse: Carmen e il Diavolo, Virgil Caine, l’uomo con la paura del palcoscenico.

Molte di queste canzoni tratteggiano intere storie in piccoli dettagli: se hai bisogno di chiedere perché Carmen e il Diavolo camminano fianco a fianco, non hai colto il punto, ma si capisce a un chilometro di distanza che non è una buona cosa.

The Band e il film The Last Waltz

Nel corso del suo periodo con The Band, Robertson sembrò diventare una sorta di personaggio mitico a sé stante. In The Last Waltz parlò dell’addio dei The Band alla vita in tour e, al concerto pieno di grandi ospiti che tennero per celebrarlo, iniziò a esaminare i miti del rock.

“La vita on the road si è presa molti dei grandi”, dice nel film. “È uno stile di vita dannatamente impossibile”. Insieme ai suoi compagni di band, Robbie Robertson ha trasformato le storie su motel e bar poco raccomandabili in epopee cinematiche. “Sedici anni on the road sono già abbastanza”, dice in un altro momento del film. All’epoca aveva 33 anni. “Vent’anni sono impensabili”.

The Last Waltz offre ai protagonisti del secondo periodo del rock la possibilità di fare un inchino al pubblico proprio mentre il punk e la disco salivano alla ribalta.

L’epopea della seconda era del rock

Il concerto, che si tenne alla Winterland Ballroom il Giorno del Ringraziamento del 1976 (con tanto di cena a base di tacchino e orchestra per i balli tradizionali) vide la partecipazione non solo del collaboratore della band Bob Dylan, ma anche di un membro dei Beatles (Ringo Starr), di uno dei Rolling Stones (Ron Wood ), di una cantautrice di Laurel Canyon di nome Joni Mitchell, di un pianista di New Orleans (Dr. John), di un grande del blues (Muddy Waters) e di una rock star che potrebbe aver celebrato gli anni ’70 in stile anni ’80 (ovvero Neil Young, che secondo una leggenda non confermata aveva visibili residui di cocaina nel naso). Il film ha raccontato la storia del rock fino al momento in cui si è frammentato in sottogeneri.

Robbie Robertson capì ciò meglio dei suoi compagni di band. Loro sembravano aver trovato pretenziosa la sua idea (il fatto che avesse un carisma magnetico sullo schermo, che mancava a loro, probabilmente non ha aiutato).

“Vivevamo il momento. Suonavamo con gente come Joni Mitchell e Muddy Waters canzoni che avevamo suonato raramente prima. Tutto ciò a cui potessimo pensare era cercare di essere all’altezza della situazione”, mi disse Robbie Robertson in un’intervista del 2016.

Nel corso degli anni il film è diventato un mito a sé. Al punto che ci sono stati concerti tributo per commemorare quello che essenzialmente doveva essere un concerto tributo a sua volta. Il film ha risuonato così tanto con me che nel 1998 ne comprai la locandina. Quella mi ha seguito in ogni appartamento o ufficio che ho avuto da allora. Un reminder della musica con cui sono cresciuto, che da allora è cominciata ad apparire un po’ antiquata.

Dopo The Band: la discografia solista di Robbie Robertson

Anche il primo album da solista di Robbie Robertson, pubblicato nel 1987, sembrava avvolto nel mito. Sia in senso figurato, in canzoni come Somewhere Down That Crazy River, sia letteralmente, nella produzione carica di riverberi del co-produttore Daniel Lanois.

In un momento in cui il rock mainstream stava diventando sempre più patinato, Robbie Robertson trovò un modo per mantenere un po’ di mistero. In parte grazie a un cast di ospiti che includeva gli U2, Peter Gabriel, Maria McKee e due ex membri dei The Band.

Diede seguito a ciò con Storyville, album del 1991 a tema New Orleans, con progetti che esploravano la musica dei nativi americani e quella che allora era chiamata “electronica” (Music for the Native Americans del 1994 e Contact from the Underworld of Redboy del 1998), e molto più tardi con altri due album da solista (How to Become Clairvoyant del 2011 e Sinematic del 2019).

L’autobiografia Testimony

Tra questi ultimi due album da solista, Robbie Robertson pubblicò una delle migliori autobiografie musicali di sempre, Testimony, in parte perché lui ha vissuto la storia del rock più di chiunque altro e la ricordi meglio di chiunque altro.

Non riuscivo più a tenermi dentro tutte queste storie”, mi disse nell’intervista del 2016. “Ce n’erano troppe ed erano diventate un fardello troppo pesante”. Sembra abbastanza credibile, ma è un modo di parlare insolitamente enfatico. Si può praticamente immaginare l’uomo appesantito dai suoi ricordi, come un personaggio di uno dei film di Scorsese ai quali ha fornito la colonna sonora.

Nel libro Robbie Robertson racconta la sua storia con la stessa attenzione per i dettagli e lo stesso taglio epico che ha usato per scrivere canzoni. “È un lavoro cinematico. Ho dovuto strutturare le scene in modo che si sovrappongano l’una all’altra, piuttosto che dire: ‘a febbraio è successo questo, poi a marzo è successo quest’altro’”, disse nel 2016. Parlava dell’idea di scrivere un secondo libro, dedicato alla sua carriera successiva. È difficile non desiderare che fosse vissuto fino a completalo.

Robertson aveva una memoria incredibile, e la dice lunga su chi fosse il fatto che aveva persino una spiegazione “mitica” – ma vera – per questo. In Testimony scrive del fatto che la sua nonna paterna era una contrabbandiera che teneva in testa indirizzi e numeri di telefono per sicurezza. “Il mio padre naturale”, mi disse, “diventò un giocatore d’azzardo, vinceva perché sapeva contare le carte”. Queste cose non si potrebbero inventare neanche provandoci, e Robertson non ne ha mai avuto bisogno.

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