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Sinéad O’Connor voleva solo urlare in un microfono, ma ha fatto molto di più

Ci vorranno ancora settimane prima di conoscere con certezza le cause della morte della cantante. In attesa che si faccia luce su cosa sia accaduto, ripercorriamo la sua vicenda artistica affinché venga ricordata come merita

Autore Billboard IT
  • Il31 Luglio 2023
Sinéad O’Connor voleva solo urlare in un microfono, ma ha fatto molto di più

Sinead O' Connor

Nata nei sobborghi di Dublino, Sinéad O’Connor era la terza di cinque figli. All’età di 8 anni i genitori si separano e lei viene affidata alla madre che, stando ai suoi racconti, ebbe comportamenti abusivi nei suoi confronti sia dal punto di vista fisico che psicologico ed emotivo. Gli abusi subiti portarono il padre a chiederne la custodia, senza successo, e ispirarono la sua canzone del 1994 Fire on Babylon, la cui prima strofa dice: «Ha portato via mio padre dalla mia vita. Ha preso mia sorella e i miei fratelli. L’ho vista torturare la mia bambina. Ero debole allora, ma ora sono cresciuta».

Il rapporto di Sinéad O’Connor con la madre

In realtà sono molte le sue canzoni che parlano del rapporto con la madre. La prima che ha scritto – e la più potente di tutte – è Troy. La canzone rievoca un episodio di quando da bambina la madre la costrinse a vivere in giardino giorno e notte: «Stavo seduta nell’erba per tenermi al caldo. Stavo lì fuori al buio e all’ora del tramonto. Ancora adesso odio i tramonti. Guardavo l’unica finestra della casa in cui lei teneva la luce accesa e urlavo chiedendole di farmi entrare. Ovviamente non mi faceva entrare, spegneva la luce ed era buio ovunque».

Nonostante le violenze, Sinéad O’Connor ha sempre voluto bene a sua madre perché sapeva che soffriva di disturbi mentali e non era pienamente consapevole di quello che faceva. Inoltre, fin da piccola, aveva trovato un rifugio sicuro nella propria voce. Lo dice chiaramente all’inizio del documentario di Kathryn Ferguson uscito l’anno scorso – Nothing Compares – in cui la voce narrante è proprio quella di Sinéad. «Mia madre non era una persona molto sana di mente. Era violenta verbalmente e fisicamente. Quando diventava una bestia, riuscivo a calmarla con la mia voce. Ero in grado di usare la mia voce per far addormentare il diavolo».

All’età di 14 anni, purtroppo, passa dalla padella alla brace e viene messa in un istituto delle tristemente note Lavanderie Magdalene, gestite dalle suore della Chiesa Cattolica irlandese con l’uso della violenza e la commistione dello stato.

Lì subisce altri abusi con un’unica “nota” positiva: alla magia della sua voce aggiunge quella della chitarra e capisce che può emanciparsi con la musica nonostante la sua situazione di partenza. Appena esce da lì viene subito notata mentre canta un brano di Barbra Straisand a un matrimonio: è la colonna sonora di A Star is Born e non può essere un caso.

ll debutto a 21 anni con “The Lion and The Cobra”

Da lì in poi militerà in vari gruppi minori fino a debuttare come solista all’età di 21 anni con The Lion and The Cobra del 1987. Il disco riesce a coniugare in maniera originale generi molto diversi fra loro. Dallo spirito del punk alle ascendenze ancestrali della musica celtica, passando per la new wave e i ritmi post-punk. Senza disdegnare anche altre cose più vicine all’hip-hop e alla musica elettronica. Incredibilmente tutto si tiene, perché la sua voce è un miracolo che riesce a piegare qualsiasi genere alla sua volontà.

Lo spirito ribelle e provocatorio della giovane cantautrice appare evidente fin dall’inizio. Le affiancano un produttore di fiducia e lei butta via il suo lavoro per rifare tutto da sola. Le chiedono di essere più femminile e lei si rasa a zero i capelli – diventando così un’immagine iconica potentissima. La invitano a esibirsi ai Grammy e lei si presenta con il logo dei Public Enemy disegnato sulla testa in segno di protesta per il mancato riconoscimento dell’hip hop come categoria musicale.

Le cose si fanno poi ancora più grosse quando esce il secondo album – I Do Not Want What I Haven’t Got – pubblicato il 20 marzo 1990. Al suo interno c’è la cover del brano scritto da Prince per cui tutti la ricordano – Nothing Compares 2 U. Una ballata straziante che la porta al successo mondiale, grazie anche a un video mozzafiato, basato interamente su un primo piano del suo volto. Durante le riprese del video una frase le riaffiora il ricordo della madre (morta nel frattempo in un incidente stradale), e le fa scendere una lacrima sulla guancia. «Tutti i fiori che hai piantato in giardino mamma, sono morti quando sei andata via».   

L’enorme successo del brano è dovuto anche a quella lacrima e alla sua cristallizzazione del dolore. «Ogni volta che canto la canzone penso a mia madre. Non ho mai smesso di piangere per lei e credo che il mio subconscio piangesse anche per quella piccola bambina seduta in giardino». In questo modo Sinéad O’Connor si impossessa del dolore della canzone di Prince e la fa sua per sempre.

Non solo “Nothing Compares 2 U”

Il disco è pieno di altre meraviglie, ma in pochi se ne accorgono. Il successo di Nothing Compares 2 U è così ingombrante da oscurare tutto il resto. Vale comunque la pena recuperare canzoni memorabili come il manifesto d’apertura di Feel So Different, il requiem per i ragazzi neri uccisi dalla polizia di Black Boys On Mopeds e quello per i suoi tre aborti spontanei, Three Babies. Senza dimenticare il poema del XVII secolo riadattato in musica di I Am Stretched To Your Grave, racconto di un amante che non riesce più a staccarsi dalla tomba dell’amata.

L’album vende 7 milioni di copie e Sinéad O’Connor diventa ufficialmente una star. Ma il successo attira le critiche. Durante un concerto in New Jersey chiede di non suonare l’inno americano prima di iniziare – com’era invece da tradizione – e si scatena il putiferio. La cantante viene bollata dai media come anti-americana, scatenando le ire delle frange più nazionaliste e patriottiche del paese, particolarmente accese perché in quel momento l’esercito americano è impegnato nella guerra in IRAQ. Persino Frank Sinatra dice di volerla prendere a calci nel sedere. Poi succede il fattaccio vero.

Il 3 ottobre del 1992 viene invitata sul palco del Saturday Night Live e decide di sfruttare l’occasione per denunciare gli abusi sui minori perpetrati dal clero, strappando la foto del papa in diretta Tv. È un gesto totalmente spiazzante per l’epoca che viene eseguito come una vera e propria performance teatrale durante l’esibizione a cappella di War di Bob Marley. Nel momento topico in cui la canzone dice di “avere fiducia nel BENE che vince sul MALE”, Sinéad O’Connor scandisce con forza la parola ”EVIL”, mentre tira fuori la foto di Wojtyla e la straccia in favore di telecamera. Come ciliegina finale sulla torta, prima di andare via aggiunge Fight The Real Enemy!” – Combatti il vero nemico!  Poi spegne le candele e si dilegua insieme al futuro della sua carriera.

Il massacro mediatico di Sinéad O’Connor

A distanza di vent’anni verrà fuori che aveva ragione lei, ma all’epoca il tema era ancora tabù e ci fu un vero e proprio massacro mediatico. Madonna la sbeffeggiò pubblicamente imitandola, Joe Pesci disse in diretta tv che se fosse successo in sua presenza, l’avrebbe presa per ”le sopracciglia!” (alludendo ironicamente al fatto che non aveva capelli) e le avrebbe tirato uno schiaffo, suscitando l’ilarità del pubblico. Persino la femminista Camille Paglia arrivò a dire che nel caso di Siéead O’Connor l’abuso sui minori era giustificato. Ma non è finita.

Soltanto due settimane dopo, al Madison Square Garden di NY, durante il concerto tributo per i 30 anni di carriera di Bob Dylan, accade un altro episodio spiacevole. Appena Sinéad O’Connor sale sul palco viene pesantemente fischiata dalla platea. Lei rimane pietrificata per un tempo che sembra infinito. A un certo punto Kris Kristofferson sale sul palco, la abbraccia e le dice all’orecchio «non permettere che questi bastardi ti buttino giù».

Ma lei risponde che non è giù. Sa già cosa fare: fa segno alla band di non suonare la canzone prevista, si fa alzare il volume del microfono e ricanta a cappella la stessa canzone di Bob Marley con cui aveva strappato la foto del papa due settimane prima, inserendo dei versi sull’abuso dei minori. L’episodio è il paradigma della sua essenza, perché questo è quello che ha sempre fatto per tutta la sua vita: ogni volta che qualcuno ha cercato di farla stare zitta lei ha urlato più forte.

Negli anni immediatamente successivi partecipa ad alcune collaborazioni importanti come la famosissima Blood of Eden di Peter Gabriel e la meno famosa Haunted di Shane MacGowan, cantante dei Pogues e altra leggenda bordeline della musica irlandese.

L’ostracismo dai radar musicali

Ma sono gli ultimi fuochi d’artificio, la sfavillante carriera pubblica di Sinéad O’Connor finisce qui. Piano piano la cantautrice sparisce dai radar musicali. O sarebbe meglio dire che viene fatta sparire, poiché di fatto viene ostacolata, umiliata e ostracizzata da tutti. In pochi giorni riceve migliaia di lettere con insulti e minacce di morte. Le radio smettono di trasmettere le sue canzoni. Le case discografiche non ne vogliono più sapere di lei e la stampa, nel migliore dei casi la ignora, nel peggiore la umilia facendo sempre più riferimenti ai suoi comportamenti “sopra le righe” e ai suoi problemi di salute mentale apertamente dichiarati. Qualcuno arriverà a definirla come “la pazza rinchiusa nella soffitta del pop”.

Dal canto suo, lei continuerà a far uscire dischi bellissimi disseminati di perle ricamate di fragilità e rabbia. Dalla pornografia del dolore sfiorata in Universal Mother (1994) – dove tratta anche il tema del suicidio e coverizza con un sussurro All Apologies di Kurt Cobain – alla rinascita della fenice di Faith and Courage (2000). Fino ad arrivare alle collaborazioni più recenti con i Massive Attack e Moby e agli album della maturità: How About I Be Me (And You Be You)? del 2012 e I’m Not Bossy, I’m the Boss  del 2014. Nel mezzo anche un album di cover del Great American Songbook (Am I Not Your Girl?), uno di pezzi root raggae (Throw Down Your Arms), uno di canzoni tradizionali irlandesi (Sean-Nós Nua) e uno di brani spirituali (Theology).

“Rememberings”, il suo memoir del 2021

Dentro questi dischi ci sono tutti i fantasmi che infestano la sua mente. Del resto «Le canzoni sono fantasmi», ha scritto nel suo memoir del 2021 – Rememberings – e lei a volte li fa uscire. «Sono diventata una specie di venditrice ambulante di fantasmi». Altre volte invece li fa entrare, come in quel duetto con Shane MacGowan, dove il ritornello ripete ossessivamente «I Want To be Haunted by a Ghost, I Want To be Haunted by a Ghost, I Want To be Haunted by a Ghost…. of your preciuos love».

Negli ultimi vent’anni si è parlato molto delle sue (ri)conversioni religiose – prima quella cristiana del 2000, poi quella all’Islam del 2018 – per le quali ha anche cambiato nome in Suor Bernadette-Marie e Shuhada’ Sadaqat (Testimone di verità). Bollate come bizzarre dai media, visti e considerati i suoi trascorsi, sono invece perfettamente coerenti con il suo percorso spirituale e la sua personalissima concezione di religione. «Non credo in una sola Chiesa Cattolica. Credo in tutte le chiese e in tutte le religioni. Penso che si possa prendere qualcosa da ogni religione. Ci sono solo diverse interpretazioni e diverse cose da imparare. Non si dovrebbe lasciarne fuori nessuna», aveva dichiarato a Spin nel ‘91.

La salute mentale

Altro argomento cui la stampa ha dato spazio in maniera quasi morbosa sono stati i suoi problemi di salute mentale. Anche perché lei stessa non ne faceva mistero, parlandone apertamente. L’ultima volta nel 2017 con un video straziante in cui mostrava al mondo tutta la sua fragilità e le difficoltà derivanti dalla sua malattia. «Non c’è nessuno nella mia vita a parte il mio psichiatra, la persona più dolce del mondo, che dice che sono il suo eroe. E questa è l’unica ragione che mi tiene in vita, ed è patetico. Le malattie mentali sono come le droghe, non gliene frega un cazzo di chi sei. E la cosa peggiore è lo stigma. All’improvviso tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male».

In rete si possono trovare molti dettagli in proposito, ma preferiamo non soffermarci perché ad oggi hanno avuto molta più luce e visibilità del suo percorso artistico. Anche il suicidio del figlio avvenuto l’anno scorso è stato oggetto di fin troppe attenzioni.

Lei invece si meritava tutt’altro. «Non voglio che le cose oscurino i miei dischi», diceva già nelle interviste di 20 anni fa. «Ho avuto 13 anni di molti problemi. Merito di essere rispettata solo come artista… e non di essere oscurata da un sacco di spazzatura».

È vero che Sinéad O’Connor ha sofferto molto e l’ha sempre mostrato, sia attraverso le sue canzoni che attraverso le sue dichiarazioni pubbliche. Ma è vero anche che ha sempre lottato per difendere prima le cause dei più deboli e poi se stessa. L’esposizione viscerale del suo dolore interiore trovava sempre il modo di alleviare un dolore collettivo.

Spesso non è stata compresa, è stata umiliata e derisa. Ma lei è sempre tornata. Per fare l’unica cosa in cui sentiva di avere un senso. Nell’introduzione del suo memoir a un certo punto scrive «Non ho mai avuto senso per nessuno, nemmeno per me stessa, a meno che non cantassi. Ma spero che questo libro alla fine abbia un senso. Se non ce l’ha provate a cantarlo e vedete se funziona».

Sinéad O’Connor non era un’artista finita

Checché se ne dica, ancora oggi Sinéad O’Connor non era affatto un’artista finita. Anzi, stava ultimando un disco che ora è in attesa di pubblicazione – No Veteran Dies Alone – e che speriamo di sentire presto. A inizio 2020 aveva anche ripreso a esibirsi in concerto, riuscendo miracolosamente a toccare l’Italia, prima che chiudessero tutto per la pandemia. Ringrazio il cielo di aver assistito alla sua data torinese e di averla vista sorridere alla fine. Un sorriso che almeno nella mia memoria resterà indelebile come quella lacrima scesale di fronte alla telecamera, in un parco fuori Parigi nell’inverno del ’90.

Molti dicono che si è auto-sabotata la carriera, ma dal suo punto di vista lei non la pensava affatto così. «Avere un album al numero uno in classifica ha fatto deragliare la mia carriera. Strappare quella foto mi ha rimessa sulla giusta strada» scrive sempre in Rememberings. «Non sono una popstar. Sono un’anima inquieta che ogni tanto ha bisogno di urlare in un microfono».

Di certo le sue urla di dolore sono state di conforto per milioni di persone e proprio per questo adesso non possiamo farle il torto di raccontarla solo come una persona che è stata sconfitta dai suoi demoni. È una cosa in cui cadiamo spesso quando un artista trasforma il suo dolore personale in un’angoscia universale che si fa catarsi e in qualche modo ci libera dai nostri fantasmi. Mentre l’artista rimane imprigionato per sempre nei suoi. È già successo con altri cantanti prima di lei, da Kurt Cobain a Amy Winehouse, e non è giusto. Lo scambio non è equo. Qualcosa glielo dobbiamo.

Proviamo allora a fare lo sforzo di credere soprattutto in quello che cantava – la vera sé stessa – perché le canzoni non sono solo dei fantasmi, le canzoni sono un lampo di luce, “songs are a bolt of light” urla in Take me To Church. Ed è giusto ricordare Sinéad O’Connor come la forza della natura che era – una fenice che risorge – come canta in Troy:  I will rise / And I will return /The Phoenix from the flame. Perché come dice lei stessa alla fine del suo documentario «Mi hanno spezzato il cuore. Mi hanno uccisa. Ma non sono morta. Hanno cercato di seppellirmi, ma non avevano capito che sono un seme». Noi sì, e i fiori che hai piantato resteranno lì per sempre. Puoi smettere di urlare ora. Ti sentiamo ancora.

Articolo di Andrea Pazienza

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