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Woodstock: 54 anni fa il festival che ha segnato la storia

Cominciava il 15 agosto 1969 la tre giorni di “Pace, amore e musica” che è entrata nella leggenda come evento irripetibile. Apice dell’utopia pacifista o inizio della fine?

Autore Alberto Campo
  • Il15 Agosto 2023
Woodstock: 54 anni fa il festival che ha segnato la storia

Richie Havens di fronte al pubblico di Woodstock (foto di Henry Diltz)

Ricorre a metà agosto il cinquantenario del festival di Woodstock. A dire il vero, in quella cittadina ai piedi delle Catskill Mountains allora non accadde nulla, ma essendo nota come rifugio per artisti, anarchici ed eccentrici di vario genere essa venne collegata simbolicamente all’evento dalla società fondata nel marzo di mezzo secolo fa – con i soci Artie Kornfeld, Joel Rosenman e John P. Roberts – dallo stesso Lang (promoter newyorkese all’epoca 24enne, reduce dall’aver organizzato nel 1968 il Miami Pop Festival) e battezzata appunto Woodstock Ventures, Inc.

La scelta della location

Il primo gruppo scritturato in aprile furono i Creedence Clearwater Revival, seguiti a ruota da Jefferson Airplane e The Who. Fra i dinieghi ci furono viceversa quelli di Simon & Garfunkel, Led Zeppelin, The Byrds, Frank Zappa e Doors, quando con Bob Dylan – che aveva preso dimora a Woodstock nel 1963 – le trattative non partirono neanche.

La sede prescelta inizialmente era il Mills Industrial Park a Wallkill, una cinquantina di chilometri a sud della località intestataria, ma il 15 luglio le autorità del posto negarono l’utilizzo del luogo. A quel punto si fece avanti Elliott Tiber (poi autore del memoriale Taking Woodstock, su cui è basato l’omonimo film di Ang Lee), proponendo l’area di White Lake a Bethel, 40 miglia più a ovest, giudicata però insufficiente da Lang, che invece prese in considerazione la vicina tenuta di Max Yasgur.

La collocazione definitiva del festival diventò di pubblico dominio nel giorno dello sbarco dell’uomo sulla Luna, il 20 luglio, a nemmeno quattro settimane dall’appuntamento.

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Janis Joplin a Woodstock (foto di Henry Diltz)

Le esibizioni di Woodstock

La sequenza di esibizioni – 32 in tutto – venne aperta nel pomeriggio di venerdì 15 da Richie Havens e conclusa al mattino di lunedì 18 da Jimi Hendrix, che affiancato dalla band chiamata Gypsy Sun and Rainbows, appena subentrata agli Experience, incluse nel proprio set una leggendaria versione distorta dell’inno nazionale statunitense, eseguita di fronte ai superstiti, ridotti a poche decine di migliaia.

Fra i due estremi del programma erano sfilati divi affermati e artisti in ascesa: Joan Baez, incinta di sei mesi, l’esordiente Carlos Santana e il poker del sabato notte composto da Janis Joplin, Sly & The Family Stone, The Who e Jefferson Airplane, mentre attrazione principale della domenica furono Crosby, Stills, Nash & Young, per la seconda volta insieme sul palco.

L’affluenza venne stimata approssimativamente in oltre 400mila persone, molte delle quali entrate gratis per l’imprevisto sovraffollamento che aveva reso ingestibile l’accesso dei partecipanti:erano stati 100mila i biglietti smerciati in prevendita a 18 dollari, quando al botteghino se ne pagavano 24.

Woodstock: l’altra faccia dell’utopia

Fu la cerimonia agiografica del movimento hippie, ambasciatore di velleità utopistiche (“Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora!”, aveva pontificato Jim Morrison alla fine del 1967 in When the Music’s Over) ed elemento costitutivo di un fronte antagonista al Sistema cementato dall’opposizione all’intervento militare in Vietnam.

Tuttavia, rese possibile l’apogeo di quell’esperienza collettiva il coinvolgimento della major Warner Bros., parte integrante del contestato establishment, divenuta beneficiaria dei contenuti su scala discografica e cinematografica con un investimento economico tale da compensare un deficit che avrebbe portato altrimenti gli organizzatori sull’orlo della bancarotta (il costo totale dell’operazione superò i tre milioni di dollari, coperti solo parzialmente dall’incasso).

Più del coronamento di un’epopea, apice della quale era stata in realtà la Summer of Love sbocciata un paio d’anni prima a San Francisco, il raduno di Woodstock rappresentò dunque la perdita dell’innocenza. Presto i nodi sarebbero venuti al pettine. A evidenziare le contraddizioni in atto furono due tragici avvenimenti dall’ingente valore simbolico.

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Foto di Henry Diltz

Charles Manson, l’Anticristo hippie

Nel weekend precedente il festival, dentro la villa di Bel Air abitata da Roman Polanski (assente per impegni lavorativi a Londra) si consumò una strage in cui persero la vita l’attrice Sharon Tate, moglie del regista, e quattro malcapitati amici.

Le indagini portarono all’incriminazione di alcuni membri della Family, ambigua osmosi fra comune libertaria e setta esoterica capeggiata da Charles Manson: personaggio che al momento dei fatti aveva trascorso due quinti dell’esistenza in carcere, scontando via via condanne per rapina, violenza sessuale e sfruttamento della prostituzione.

Sui muri della villa avevano tracciato con il sangue delle vittime le scritte Pigs e Helter Skelter: titoli di brani inclusi nel White Album dei Beatles, dove Manson sosteneva di aver trovato messaggi cifrati che gli avevano ispirato un complotto delirante di cui l’eccidio di Bel Air faceva parte.

I media non chiedevano di meglio: entrava in scena l’Anticristo hippie. Da aspirante cantautore, l’avventuriero californiano aveva avuto libero accesso ai circoli della controcultura di Los Angeles, divenendo amico di Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys, che registrarono addirittura una sua canzone, Cease to Exist, rinominata Never Learn Not to Love, destinandola al retro del 45 giri Bluebirds Over the Mountain.

Scriveva a proposito Greil Marcus in Mistery Train: “Non c’è modo di separare la gioconda libertà dei Beach Boys dal coltello di Manson”.

Il disastro di Altamont

Frattanto i Rolling Stones stavano per tornare a dare concerti negli States, dopo un bando di tre anni dovuto alle grane con la giustizia in patria, e si apprestavano a pubblicare il nuovo album Let It Bleed. Decisero perciò di emulare il rito generazionale di Woodstock in occasione dell’ultima tappa della tournée, coinvolgendo qualche protagonista dell’happening di metà agosto: Santana, Jefferson Airplane e Crosby, Stills, Nash & Young.

Prese forma in quel modo il festival gratuito del 6 dicembre all’autodromo di Altamont, nei pressi di San Francisco. Affidarono la “sicurezza” alla famigerata gang motociclistica degli Hell’s Angels.

Risultato: anziché sedare gli animi dei 300mila presenti, gli “angeli” li attizzarono in un crescendo di provocazioni, fino al sanguinoso epilogo che costò la vita al 18enne afroamericano Meredith Hunter. Era “la nemesi di Woodstock”, per parafrasare il titolo usato allora da Rolling Stone.

Lo studioso britannico Simon Frith ha descritto con nitidezza la potenza metaforica di quell’incidente nel saggio La sociologia del rock: “La violenza al festival di Altamont del 1969 era il segnale definitivo che una comunità non può basarsi esclusivamente sul consumo musicale”.

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Foto di Henry Diltz

L’inizio del grande freddo

Erano le avvisaglie di quanto sarebbe accaduto con l’avvento del decennio seguente: l’utopia degli hippies e le illusioni insurrezionali del Movement andarono letteralmente in frantumi al contatto con gli anni ’70, aperti in aprile dall’annuncio ufficiale della separazione dei Beatles.

A condensarne il senso in chiave allegorica fu un trittico di lutti degno di una tragedia shakespeariana: il 18 settembre 1970 morì Jimi Hendrix e 16 giorni più tardi toccò a Janis Joplin, mentre il 3 luglio 1971 se ne andò Jim Morrison.

All’Estate dell’Amore subentrò così l’Inverno del Malcontento. La ricaduta in termini di consapevolezza e identità venne fotografata nel 1983 dal regista Lawrence Kasdan nel celebre film Il grande freddo.

Tutte le foto di questo articolo sono tratte dal libro “Woodstock. I tre giorni che hanno cambiato il mondo” (ed. Hoepli) di Mike Evans e Paul Kingsbury

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