Quali strategie per il music export? L’intervista a Francesco Del Maro (HitWeek)
Il fenomeno Måneskin ha riacceso la passione dell’industria italiana per il tema dell’internazionalizzazione. Terreno complesso, che esploriamo con chi se ne occupa da sempre (e “sul campo”)
Il tema non è nuovo: da sempre la music industry nostrana fa i conti col problema del music export su scala continentale e – perché no – globale della nostra produzione artistica. Talvolta sono stati raggiunti risultati esemplari, ma sempre parziali: per esempio legati a specifici artisti, fasce di pubblico, regioni del mondo; non c’è mai stata una “Italian invasion”, insomma.
Cosa fare per raggiungere un breakthrough analogo a quello del Latin pop e del K-pop? Il fenomeno Måneskin ha certamente aperto nuovi spazi di opportunità ma rimane ad oggi un caso isolato. Troppo grande per il solo Stivale, troppo piccola per la platea globale, la nostra produzione musicale fatica a trovare una strategia sistemica nel mondo.
Ne parliamo con chi ha costruito l’expertise di una vita proprio su questi temi (e sul campo): Francesco Del Maro, fra le altre cose fondatore del festival itinerante HitWeek e organizzatore dei tour mondiali di artisti come Franco Battiato, Ligabue, Gigi D’Alessio, Elisa, Emma, Ludovico Einaudi, Subsonica.
Il music export secondo Francesco Del Maro di HitWeek
Tu come leggi il dato relativo al quasi raddoppio dell’export musicale italiano nel 2021 sul 2020?
Deve essere uno stimolo a fare di più e meglio, e soprattutto a fare sistema. Troppo spesso le attività legate al nostro music export non sono sistematiche: ci sono più soggetti che si muovono in maniera autonoma, e questo rende inutili tanti sforzi. Dovremmo muoverci come tanti paesi in Europa o nel mondo che si muovono all’unisono, come il Brasile.
Il Brasile cosa fa?
In ogni fiera o rassegna del mondo, gli stand del Brasile sono sempre quelli più grossi, perché tutti i vari enti si mettono d’accordo per una partecipazione unica. Il tema dell’export passa per forza dalle risorse economiche, e allora fare sistema significa anche mettere insieme tante piccole risorse per crearne una più strutturata.
In che modo il fenomeno Måneskin ha ampliato le possibilità di music export per la scena italiana?
È qualcosa di estremamente positivo, soprattutto in termini di percezione. Negli Stati Uniti iniziano a guardarci in maniera diversa. Prima dovevamo spiegare: “Sì, siamo italiani ma non facciamo solo il mandolino o l’operetta”. Adesso invece pensano ai Måneskin. Mi duole quando in Italia vedo invidie, hater… Chiunque abbia a che fare con la musica dovrebbe esserne solo contento, al di là del gusto personale.
Quello dei Måneskin è stato un percorso esemplare ma difficile da replicare, proprio perché così lineare: X Factor, Sanremo, Eurovision, mondo. Quali possono essere allora altre strade per gli artisti italiani che ambiscano a risultati del genere?
Non bisogna mettersi a tavolino e cercare di creare il fenomeno “Måneskin 2”. Bisogna semmai cavalcare la diversa prospettiva che oggi l’Italia ha all’estero. Abbiamo una visibilità maggiore ma chi muove le fila delle discografia sa benissimo che non avrebbe senso tentare il bis. Piuttosto è importante continuare con alcuni percorsi: per esempio la dance italiana è ancora un grande fenomeno di esportazione.
Fra italiani residenti in Italia (59 milioni), expat registrati all’AIRE (5.8 milioni), italofoni non madrelingua (almeno 5 milioni), discendenti della diaspora (60-80 milioni) e “italofili” (convenzionalmente stimati in 250 milioni), si raggiunge un bacino potenziale di circa 400 milioni di persone nel mondo. Come si intercetta questo ampio target?
Noi sin dall’inizio ci siamo detti: “Se dobbiamo andare all’estero, non rivolgiamoci solo agli italiani all’estero, altrimenti diventiamo un fenomeno di nostalgia”. No: dobbiamo portare la musica italiana agli “indigeni” di quei territori. Le mie azioni mirate infatti sono partite dai college, dalle università. È chiaro che gli italiani e gli italofoni ci fanno gioco: se uno di loro porta con sé a un concerto un inglese o un americano, è un risultato importante. Piano piano le azioni mirate ti fanno aumentare il livello di visibilità. Ogni anno la penetrazione raggiunge risultati sempre maggiori.
Ecco, che tipo di riscontro avete avuto da quel pubblico di non italiani?
Ai primi show che facevamo, su 100 spettatori 50 saranno stati italiani, 30 oriundi e 20 locali. Adesso il trend si è completamente ribaltato. Io mi sono occupato del tour management di Ligabue a Parigi e Londra. Mentre a Parigi la maggior parte del pubblico era residente, quindi moltissimi francesi, a Londra il 90% erano italiani. Londra infatti è la prima città all’estero per numero di italiani.
Noi abbiamo fatto spettacoli in Cina, Stati Uniti Canada… ogni territorio è diverso. A New York la percentuale di italiani può essere più alta di quella che troviamo a Los Angeles, ma proprio per questo è più interessante andare a L.A.
Il Latin pop e il K-pop hanno dimostrato che il problema delle barriere linguistiche è relativo: secondo te quali sono le possibilità della lingua italiana anche presso i non italofoni?
Non è un problema, lo dico da sempre. Prima dei Måneskin, ricordo sempre il caso dei Rammstein: un gruppo enorme (hanno appena finito un tour negli stadi negli USA) che canta in tedesco. Chi riesce a fare breccia nel mercato preservando la propria lingua è da ammirare. Pur essendo un gruppo planetario, i Måneskin ci tengono a inserire nei dischi brani in italiano. Questo è un bel successo, forse anche uno strumento più potente dei corsi di italiano all’estero.
Ovviamente la musica italiana ha già conosciuto fenomeni di music export, legati però a specifici periodi e specifici artisti: Zucchero, Andrea Bocelli, Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Tiziano Ferro. È possibile secondo te una sorta di “Italian invasion”, una scena organica, o rimarranno fenomeni isolati?
Gli artisti che citi sono legati a una nicchia – più o meno grande – di pubblico: Pausini e Ramazzotti, per esempio, sono legati al mondo Latin; Bocelli parte dal mondo classicheggiante per approdare a una sorta di crossover. La cosa interessante dei Måneskin è che sono mainstream: vanno a colpire un pubblico assolutamente trasversale, non di nicchia. Ramazzotti, quando va negli USA, il repertorio lo fa in spagnolo. Il modello a cui ambire, allora, è cercare di essere mainstream.
Vedi nuovi potenziali mercati per l’export musicale italiano oltre a quelli tradizionali come Sud America ed Est Europa e oltre a quello statunitense su cui tu lavori intensamente?
Abbiamo fatto esperimenti in Asia. In questa fase sono un po’ in standby perché non è chiara la situazione legata al Covid, perché altrimenti sarebbe un obiettivo da riprendere. Comunque ho grosso interesse e curiosità per il Medio Oriente: può riservare sorprese.